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LA SUPREMA CORTE SULLA DECORRENZA DELL’INDENNITÀ DOVUTA PER L’USO ESCLUSIVO DELLA CASA CONIUGALE DA PARTE DEL CONIUGE SEPARATO.

La Cassazione con ordinanza n. 10264/2023 del 18 aprile 2023 ha sancito che l’ex coniuge separato, comproprietario dell’immobile adibito a casa coniugale, può ottenere il pagamento di un indennizzo da parte dell’altro coniuge che lo occupa in via esclusiva.

E’ chiaro che il riferito immobile non deve essere stato oggetto di provvedimento di assegnazione in favore dell’altro coniuge, in quanto in tal caso l’uso esclusivo è legittimato da un provvedimento giudiziale.

Per cui ha chiarito la Corte che per ottenere l’indennizzo legato all’uso esclusivo sono necessarie ulteriori condizioni quali:

  1. che la natura del bene di proprietà comune non ne permetta un simultaneo godimento da parte dei comproprietari, ad esempio quando non vi è avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari, in quanto non ne è impedito il godimento individuale;
  2. in secondo luogo è necessaria una richiesta formale di rilascio dell’immobile ovvero un istanza di utilizzo (anche turnario) o di ricevere una quota dei frutti non goduti. Da questo momento,  tra l’altro, decorre il diritto all’indennità e non dall’emissione dei provvedimenti presidenziali o dalla sentenza di separazione.

Pertanto la Corte di Legittimità ha cassato con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che nel decidere la controversia si dovrò attenere al principio di diritto secondo cui “in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l’art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto. In mancanza di deliberazione, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili con decorrenza dalla data in cui allo stesso perviene manifestazione di volontà degli altri comproprietari di avere un uso turnario o comunque di godere per la loro parte del bene”.

Cassazione-civile-ordinanza-10264-2023

Avv. Claudio Sansò

Presidente AMI Salerno – Coordinatore Nazionale AMI


SENTENZE

Linee Guida per la regolamentazione delle modalità di mantenimento dei figli nelle cause di diritto familiare

La Cassazione con ordinanza n. 10264/2023 del 18 aprile 2023 ha sancito che l’ex coniuge separato, comproprietario dell’immobile adibito a casa coniugale, può ottenere il pagamento di un indennizzo da parte dell’altro coniuge che lo occupa in via esclusiva.

E’ chiaro che il riferito immobile non deve essere stato oggetto di provvedimento di assegnazione in favore dell’altro coniuge, in quanto in tal caso l’uso esclusivo è legittimato da un provvedimento giudiziale.

Per cui ha chiarito la Corte che per ottenere l’indennizzo legato all’uso esclusivo sono necessarie ulteriori condizioni quali:

1. che la natura del bene di proprietà comune non ne permetta un simultaneo godimento da parte dei comproprietari, ad esempio quando non vi è avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari, in quanto non ne è impedito il godimento individuale;
2. in secondo luogo è necessaria una richiesta formale di rilascio dell’immobile ovvero un istanza di utilizzo (anche turnario) o di ricevere una quota dei frutti non goduti. Da questo momento,m tra l’altro, decorre il diritto all’indennità e non dall’emissione dei provvedimenti presidenziali o dalla sentenza di separazione.
Pertanto la Corte di Legittimità ha cassato con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che nel decidere la controversia si dovrò attenere al principio di diritto secondo cui “in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l’art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l’uso indiretto. In mancanza di deliberazione, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili con decorrenza dalla data in cui allo stesso perviene manifestazione di volontà degli altri comproprietari di avere un uso turnario o comunque di godere per la loro parte del bene”.

Avv. Claudio Sansò, Presidente AMI Salerno 
Fonte: https://www.ami-avvocati.it/?p=8770

Come regolarsi con il pagamento della rata mensile della scuola privata, nell'era del Covid-19.

Per rispondere compiutamente alla questione afferente l’obbligatorietà del pagamento della rata mensile della scuola privata, in considerazione dello stato di temporanea chiusura dell’istituto a causa della pandemia in corso, è preliminare fornire un inquadramento normativo dell’istituto ad esso sotteso.
In particolare, il detto rapporto contrattuale va qualificato come un contratto sinallagmatico a prestazioni corrispettive, ovvero in cui le prestazioni dovute dalle parti sono tra loro connesse, al punto che l'una costituisce il corrispettivo dell'altra. 
Infatti, nel caso della scuola, a fronte dell’obbligo della struttura di erogare il servizio scolastico, corrisponde l’ obbligo degli alunni di pagare la retta scolastica: tuttavia, in virtù della legittima chiusura (temporanea) dell’istituto, dettata, appunto, da una causa di forza maggiore quale quella della epidemia in corso (Coronavirus), che giustifica un mancato e/o diminuito adempimento di una obbligazione, può corrispondere l’altrettanto legittima sospensione del pagamento delle retta relativamente al periodo di chiusura.
Tanto trova conforto nel disposto di cui all’art. 1256 c.c., a mente del quale «L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento... ».
Ne consegue che, seguendo questo ragionamento, potrebbe validamente sostenersi che, a fronte della sussistenza di una causa non imputabile al debitore ex art. 1256 c.c, ovvero di un provvedimento governativo che ha imposto la chiusura delle scuole, la prestazione è divenuta impossibile.
Altrimenti detto, il “factum principis” ossia l’ordine della autorità che vieta di effettuare la prestazione ha determinato, per la scuola debitrice, l’impossibilità di erogare il servizio, esonerandola dalla responsabilità contrattuale, nel senso che essa non sarà certamente tenuta ad alcun risarcimento di danni per la mancata fruizione del servizio.
Tuttavia, trattandosi di contratto sinallagmatico, secondo cui, ex art. 1463 c.c.: «Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta , secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito», essendo specularmente divenuto inutilizzabile il servizio da parte dei creditori- alunni(essendo ad essi precluso l’accesso alle aule), la scuola non avrebbe alcun diritto a percepire l’importo della retta per il periodo in cui resta chiusa (e le somme eventualmente già versate quale corrispettivo per il periodo interessato dal “blocco” dovrebbero essere restituite).
Nemmeno potrebbe parlarsi, nel caso di specie, di risoluzione definitiva del contratto, ma solo di momentanea sospensione (con esonero di entrambe le parti dall’adempimento delle rispettive prestazioni fino a che resterà in vigore il provvedimento inibitorio), atteso che l’impossibilità di eseguire la prestazione è da ritenersi temporanea, essendo prevedibile che la situazione da Covid-19 sia destinata a cessare, con conseguente ripresa delle attività finora precluse.
Qualche dubbio sulla effettiva impossibilità di eseguire la prestazione da parte della scuola e dunque sulla completa liberazione da ogni responsabilità di natura contrattuale dell’istituto scolastico potrebbe però derivare dalla circostanza che, in effetti, il divieto di erogazione della prestazione di natura didattica non dovrebbe riguardare le attività svolte a mezzo gli strumenti informatici (cd. didattica on line). 
In realtà si potrebbe agevolmente sostenere, anche richiamandosi a quanto precisato da autorevole dottrina sul punto, che la scuola non sarebbe tenuta, per ovviare al factum principis, ad organizzarsi con la didattica on line (soprattutto se ciò comporta importanti esborsi economici); anche perché, d’altro canto, la prestazione promessa dall’ente scolastico prevede, di norma, un contatto diretto tra alunni ed insegnanti e lo svolgimento di attività in aula, cosa che , è effettivamente divenuta impossibile poiché non può (più) essere materialmente eseguita.
Al più, la didattica on line potrebbe essere uno strumento alternativo con il quale le parti potrebbero ovviare all’emergenza, accordandosi sulla diversa modalità di erogazione del servizio e sulla conseguente ridefinizione dell’aspetto economico: ciò, sempre a patto che, le dette modalità alternative non fossero già state previste ed accettate al momento della nascita del rapporto contrattuale tra le parti.
In tale ultimo caso, infatti, non potrebbe validamente applicarsi l’art. 1463 cc e dunque non si potrebbe invocare la legittimità nella mancata corresponsione della retta scolastica, che dovrebbe invece essere corrisposta.
Sarebbe opportuno dunque verificare quanto contenuto nel contratto ed eventualmente prendere accordi diretti con il dirigente scolastico al fine di trovare una soluzione che possa contemperare le esigenze comuni.   
Avv. Laura Fasulo

Affidamento ai  tempi del CORONAVIRUS: come comportarsi.

Il diritto di visita dei figli, nel caso di coppie separate, divorziate o in fase disgregazione, non può dirsi sospeso, nemmeno nel periodo del Coronavirus.
In particolare, con riferimento espresso al c.d. diritto di visita del genitore non collocatario della prole (rectius: alla regolamentazione dei tempi di permanenza del figlio presso ciascuno dei genitori) si era posto il quesito se gli spostamenti dei genitori per prendere e riportare i figli potessero considerarsi o meno necessari e dunque fossero o meno leciti.
Ebbene, il Tribunale di Milano, sez. IX, 11 marzo 2020, Dott.ssa Piera Gasparini, ha avuto modo di pronunciarsi sul punto chiarendo che: 
-“le previsioni di cui all'art. 1, comma 1, Lettera a), del DPCM. 8 marzo 2020 n. 11 non siano preclusive dell'attuazione delle disposizioni di affido e collocamento dei minori, laddove consentono gli spostamenti finalizzati a rientri presso la "residenza o il domicilio", sicchè alcuna "chiusura" di ambiti regionali può giustificare violazioni, in questo senso, di provvedimenti di separazione o divorzio vigenti;”  
-“anche le FAQ diramate dalla Presidenza del CDM in data 10.3.2020 indicano al punto 13 che gli spostamenti per raggiungere i figli minori presso l'altro genitore o presso l'affidatario sono sempre consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione e divorzio.” 
Quindi, i genitori, e più di frequente le madri, dovrebbero permettere il normale alternarsi dei figli, secondo quanto statuito nel provvedimento giudiziario.
Ovviamente, chiarito che i genitori non collocatari (quasi sempre i padri), in virtù di quanto sopra, sarebbero comunque legittimati a continuare a vedere i figli ed a tenerli con sé secondo quando già disposto ius iudicis, il problema più spinoso è quello di coniugare le dette disposizioni con il buon senso, che è la regola che dovrebbe sempre prevalere, a maggior ragione in un simile momento storico.
Pur essendo più che comprensibile anche il desiderio dell’altro genitore di voler trascorrere più tempo possibile con il proprio figlio, non bisognerebbe ostinarsi nel voler far mettere in esecuzione, a tutti i costi, quanto statuito, in punto di diritto di visita, nel provvedimento giudiziario di cui si dispone, atteso che di mezzo c’è la salute dei propri figli, soprattutto laddove si è nell’impossibilità di garantire il rispetto di precise prescrizioni a loro tutela.
Ispirandosi a criteri di maggiore ragionevolezza, si potrebbe proporre, ad esempio, all’altro genitore, di modificare temporaneamente il calendario vigente, accorpando i tempi di visita del figlio, in periodi più consistenti, di modo da ridurre il via-vai frequente e gli spostamenti del minore con il genitore non collocatario e, di conseguenza, i rischi del contagio.
Tuttavia, è fondamentale adottare comunque ogni forma di cautela che possa prevenire ogni potenziale rischio di esporre i minori ad un contagio (tra cui evitare gli spostamenti con mezzi pubblici oppure evitarli o limitarli quando le residenze tra i due genitori si trovano a considerevoli distanze geografiche; evitare il contatto tra i minori e i nonni, soggetti chiaramente più vulnerabili o dunque maggiormente suscettibili di essere contagiati; evitare contatti con altri soggetti maggiormente esposti al rischio di contrarre il Covid-19; cercare di garantire il rispetto delle distanze di sicurezza con gli altri componenti il nucleo familiare del genitore non collocatario).
Di segno parzialmente contrario a quanto disposto dal Tribunale di Milano, l’ordinanza del Tribunale di Bari del 26 marzo 2020, con la quale, in un caso in cui, su istanza della madre(genitore collocatario), era stata chiesta la sospensione degli incontri tra padre e minore(abitanti in due comuni diversi), è stato ritenuto opportuno interrompere, fino al termine del 3 aprile 2020 (indicato nei predetti DD.PP.CC.MM.), le visite paterne, stabilendo l’opportunità di esercitare il diritto di visita paterno attraverso lo strumento della videochiamata o Skype, per periodi di tempo uguali a quelli fissati, e secondo il medesimo calendario.
Ciò, sulla base delle seguenti considerazioni:
-gli incontri tra figli minori e genitori che dimorano in due comuni diversi non sono rispondenti alle condizioni di sicurezza e prudenza, previste dai vari DD.PP.CC.MM. Infatti, se che lo scopo della normativa è la limitazione dei movimenti sul territorio (compresi gli spostamenti da un comune ad un altro) al fine di contenere il contagio, a questa devono attenersi tutti i cittadini, compresi i minori.
-non è verificabile se, durante gli incontri con il padre, il minore sia stato esposto a rischio sanitario, con possibilità di contagio al suo rientro;
-nell’attuale periodo di emergenza, il diritto-dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi è recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone, legalmente stabilite per ragioni sanitarie(art. 16 Cost.) e rispetto al diritto alla salute (art. 32 Cost.)
Da quanto sin qui evidenziato potrebbe essere più opportuno, dunque, decidere di sospendere il diritto di visita del figlio ed affidarsi esclusivamente ai mezzi tecnologici che, comunque, in un momento così delicato come quello che stiamo vivendo, aiutano a mantenere un contatto, si auspica quotidiano, tra il minore ed il genitore non collocatario, ed a far sentire tutti meno distanti e meno soli.
Sarebbe comunque una soluzione praticabile laddove non si fosse costretti a ricorrervi per un periodo particolarmente prolungato.
E’ pur vero che ogni caso è a diverso e richiede una sua autonoma valutazione, soprattutto per tutelare il diritto alla bigenitorialità da un lato ed il diritto alla salute dall’altro.
Tuttavia, se è necessario il buon senso del non collocatario, è fondamentale che vi sia la collaborazione anche dell’altro, il quale dovrà cooperare in tal senso, spiegando al figlio il perché il genitore non si rechi a prenderlo e favorire i detti contatti. Diversamente, sarà tutto più difficile.

Avv. Laura Fasulo

L’assegno divorzile va riconosciuto solo in casi particolari: è sempre più difficile ottenerlo.

La Corte di Cassazione con l’ultimo pronunciamento (sent. n. 18287/19 dell’11.06.2019) ha ribadito che l’assegno divorzile spetta solo in particolari casi e non dipende certamente dalla differenza di reddito fra i coniugi.

Oramai è chiara ed univoca la direttrice giurisprudenziale degli Ermellini, anche alla luce delle Sezioni Unite dello scorso anno, ossia il rifiuto, anche in presenza di un sostanziale divario di reddito con l’ex partner, salvo che vengano dimostrate condizioni economiche e sociali particolari che non ne facciano venire meno i presupposti.

In pratica il coniuge richiedente dovrà dimostrare che la mancanza di mezzi di sostentamento dipendono da fattori esterni al matrimonio, quali ad esempio l’età, le condizioni di salute o l’aver fatto per anni la casalinga per cui si è rimasti lontani dal mondo del lavoro. Come giusto che sia l’onere della prova, inerente a queste condizioni, è completamente ad appannaggio del deducente.

Cosicché Il divario fra i redditi dei coniugi non è più di per sé determinante per far scaturire l’assegno divorzile. Pertanto anche un coniuge senza reddito potrebbe non avere più diritto a nulla dopo il divorzio, soprattutto se è ancora giovane per poter cercare lavoro, oppure non ha dato prova che l’assenza di reddito e di occupazione sono dovute a circostanze esterne come la salute o l’impossibilità di trovare un posto di lavoro. E ancora, il diritto sfuma qualora la durata del matrimonio è molto breve.

Avv. Claudio Sansò

Affido condiviso, l’Autorità garante in Senato segnala le criticità

Numerose le criticità segnalate dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ascoltata oggi dalla commissione Giustizia del Senato sui disegni di legge in materia di affido condiviso. “No a una divisione predeterminata del tempo da trascorrere con i genitori – afferma la Garante Filomena Albano – ogni separazione è una storia a sé e l’interesse dei figli va valutato caso per caso, tenendo conto della singola situazione e in relazione alle fasi della crescita”.

“Bisogna mettere al centro dell’attenzione prima i figli e dopo le esigenze dei genitori”. È questo, in sintesi, il messaggio lanciato dall’Autorità garante. “La bi-genitorialità è il diritto dei bambini e dei ragazzi ad avere una relazione piena, armoniosa, prevedibile e costante con entrambi i genitori. Per gli adulti è responsabilità e attenzione alle reali esigenze dei figli in crescita. L’amore non si misura con il tempo, ma con la cura e l’attenzione”.

Quanto al mantenimento in forma diretta, la Garante Albano evidenzia che “si rischia di mettere in evidenza la disparità economica tra genitori nei periodi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro, con inevitabili ripercussioni sull’esistenza del figlio e sulla qualità della relazione genitoriale”.

“Nei casi di rifiuto da parte del figlio di vedere un genitore – osserva ancora Filomena Albano – occorre indagarne le ragioni in relazione alla complessità di ogni singola situazione”.

Perplessità sono espresse anche in relazione al doppio domicilio, all’intervento dei nonni nel procedimento e alla videoregistrazione obbligatoria dell’ascolto dei minorenni nel corso del procedimento di separazione. “Potrebbe determinare un danno all’equilibrio personale ed affettivo del ragazzo, aggravato dalla possibilità delle parti di porgli domande” dice Filomena Albano.

La mediazione, secondo l’Autorità garante, va incentivata. “Ma non può essere pensata in forma obbligatoria perché è un percorso libero, partecipato, riservato e intimo che può essere efficace solo laddove i genitori prestino liberamente il proprio consenso a ricorrervi. Nell’ottica di promuovere la cultura della mediazione si potrebbe prevedere l’obbligatorietà di un primo incontro informativo”.

Avv. Claudio Sansò

Linee guida per la regolamentazione delle modalità di mantenimento dei figli, nelle cause di diritto
familiare

Il Consiglio Nazionale Forense con la Commissione Famiglia e le associazioni del settore hanno
messo in campo le linee guida per la regolamentazione delle modalità di mantenimento dei figli
nelle cause di diritto familiare. Il 29 novembre 2017 tali linee guida sono state diffuse presso tutti
gli ordini di avvocati d’Italia.

Il tutto prende piede dalla riforma del titolo IX capi I e II, del libro primo del codice civile, che ha
determinato un sostanziale mutamento nei rapporti di filiazione e familiari e si è provveduto ad
effettuare una ripartizione tra le spese correnti della famiglia, in particolare quelle che rientrano nel
mantenimento ordinario e quelle straordinarie, che rappresenta uno dei maggiori motivi di attrito
tra i genitori in crisi coniugale.

Avv. Claudio Sansò

La nuova convivenza dell’ex non è sufficiente per la revoca del mantenimento

Con l'ordinanza n. 25074/2017 del 23 ottobre 2017 i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso
di un uomo che aveva chiesto la revoca dell’assegno di mantenimento attribuito in favore della ex
moglie. L’ex coniuge aveva intrapreso l’azione giudiziale partendo dal presupposto che la ex
consorte avesse intrapreso una convivenza con un nuovo partner.

I giudici della Suprema Corte hanno chiarito che la domanda non fosse fondata in quanto nel corso
del giudizio di merito non era stata provata la circostanza la nuova relazione intrapresa dalla moglie
avesse i connotati di una famiglia di fatto, tale da legittimare il venir meno dell'assegno.

La Corte, ratificando la decisione di secondo grado, ha precisato che "la dimostrazione
dell'instaurazione da parte del coniuge beneficiario di un nuovo rapporto familiare che assuma i
suddetti connotati spetta, in linea di principio, al coniuge onerato, come fatto estintivo del diritto
all'assegno divorzile".

Avv. Claudio Sansò

La riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli decorre dal
momento della pronuncia giudiziale di modifica

Con sentenza della Cassazione n. 25166/17 del 24.10.2017 gli ermellini hanno chiarito che nel caso
di riduzione dell’assegno di mantenimento, ottenuta a seguito di una pronuncia di modifica, la
decorrenza della diminuzione dell’assegno decorre dal momento della pubblicazione della sentenza 
che ne varia la misura. 

Non è quindi possibile chiedere il rimborso di quanto percepito dal titolare
durante l’iter della causa.

Si avrà la portata retroattiva, per il solo assegno di mantenimento al coniuge, soltanto se è
dimostrato che l’evento che modifica le condizioni reddituali dei coniugi si è verificato prima della
proposizione del ricorso (Cass. ord. 10787/17 del 3.05.2017).

Avv. Claudio Sansò

“E’ nulla la scrittura privata fra coniugi con la quale si regolano le visite ai figli”

E’ nulla la scrittura privata fra coniugi con la quale si regolano le visite ai figli
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20801 del 2.05.2017, ha stabilito che i genitori non possono
modificare, mediante scrittura privata, quanto sancito in sede di separazione o divorzio in merito ai
loro rapporti di frequentazione con i figli minori.

Per la Suprema Corte tale patto è nullo, poichè rispetto a questi diritti indisponibili che riguardano i
minori, è sempre necessario il vaglio del tribunale. Difatti, in teoria il nuovo accordo potrebbe
risultare pregiudizievole degli interessi supremi del minore.

Pertanto, per far rispettare la nuova regolamentazione sarà sempre necessaria una richiesta di
modifica delle condizioni della separazione o del divorzio da sottoporre al giudicante.

Lascia perplessi, però, che anche se vi sia stato accordo tra le parti, il genitore che non rispetta il
provvedimento del magistrato ne risponde a titolo di reato per "mancata esecuzione dolosa di un
provvedimento del giudice" (art. 388 cp).

Avv. Claudio Sansò
Non è reato leggere gli sms e le chat della moglie se il cellulare è lasciato incustodito.

Il Tribunale di Roma (sent. n. 6432/2016) ha stabilito che non è reato l'aver aperto e letto i messaggi
presenti sul cellullare del partner.

Precisano i giudici che la condotta è lecita allorquando l'apparecchio telefonico è lasciato
incustodito in casa.

In tale ipotesi vi è un affievolimento della tutela della riservatezza in quanto, in costanza di
convivenza, si presume che gli oggetti presenti in casa possano essere utilizzati da entrambi i 
coniugi. Caso diverso è quello riguardante l'ipotesi in cui il cellullare fosse provvisto di codice di
accesso. In tal caso, nell'ipotesi di utilizzazione dei dati personali, vi sarebbe la configurazione del
reato poiché mancherebbe la presunzione tacita di autorizzazione all'utilizzo del bene.

Questa sentenza ha rilievo anche nell'ambito della separazione coniugale, ove per l'appunto, i
messaggi che dimostrerebbero l'infedeltà e ottenuti in tal modo potranno essere utilizzati nel
processo, ai fini dell'addebito, poiché non carpiti illecitamente.

Avv. Claudio Sansò

E' Legge il diritto dei minori in affido alla continuità affettiva.

Dopo un lunghissimo iter, finalmente è stata approvata la Legge n. 2957 (Legge sul diritto alla
continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), volta a modificare la L. n
184/1983 sulle adozioni.

Tale Legge esprime un principio di “buon senso” che per troppo tempo non è stato attuato.

In particolare, prevede che i minori che crescono con genitori affidatari, potranno essere adottati da
questi, se risulta impossibile il loro ritorno nella famiglia di origine.

I genitori affidatari, pertanto, potranno adottare il minore con il quale convivevano da molto tempo
e con il quale si era creato un forte legame affettivo.

Le innovazioni della predette Legge sono le seguenti:
L’art. 1 introduce tre nuovi commi (5-bis, 5-ter e 5-quater). Il comma 5-bis, consente alla famiglia
affidataria di chiedere l’adozione del minore qualora questi venga dichiarato adottabile.

La coppia affidataria per poter procedere all’adozione, deve possedere gli stessi requisiti richiesti
per chi fa domanda di adozione, ed in particolare l’essere sposati da almeno tre anni, escludendo
così le coppie di fatto e i single.

La continuità delle relazioni affettive consolidate durante il periodo di affidamento è tutelata
qualora dopo il periodo di affidamento il bambino faccia ritorno nella famiglia d’origine ovvero
venga adottato da altra famiglia (comma 5-ter).

Ai fini della decisione circa l’adozione il giudice «tiene conto anche delle valutazioni documentate
dei servizi sociali, ascoltando il minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se
capace di discernimento» (5-quater).

L’art. 2 prevede che «l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a
pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di
adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare memorie scritte»,
introducendo dunque un’ipotesi di nullità, prima non prevista, nel caso in cui la famiglia affidataria
non venga sentita.

L’art. 3 estende la procedura per la dichiarazione di adottabilità anche alle ipotesi di prolungato
periodo di affidamento.

L'art. 4 interviene sulle adozioni in casi particolari e, in particolare sull’ipotesi relativa all'orfano di
padre e di madre che oggi può essere adottato da persone legate da vincolo di parentela fino al sesto
grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori. In questo caso,
l'adozione è consentita anche alle coppie di fatto e alla persona singola; se però l'adottante è
coniugato e non separato, l'adozione deve essere richiesta da entrambi i coniugi. L'art. 4 specifica
che il rapporto "stabile e duraturo" è considerato ai fini dell'adozione dell'orfano di entrambi i
genitori anche ove maturato nell'ambito di un prolungato periodo di affidamento.

Avv. Marianna Grimaldi
Tribunale di Roma. I neonati possono dormire con il papà

il Tribunale di Roma, modificando un radicato indirizzo di merito, ha riconosciuto il diritto del
padre ai pernotti con la figlia di 16 mesi.

Questa svolta rappresenta una novità assoluta dacché sino ad oggi i giudici capitolini ritenevano
opportuno prevedere una certa gradualità nel riconoscimento del diritto del padre di pernottare con i
figli al di sotto dei tre anni.

La soglia di età stabilita per superare questa illogica restrizione nei confronti della figura paterna era
quella dei tre anni e sei mesi, in quanto si riteneva che da quell’età in poi si consolidasse il legame
del padre con i figlio e che per il padre vi fosse un progresso nelle capacità di accudimento del
bambino.

Avv. Claudio Sansò
Cassazione: le spese per l’asilo vanno rimborsate al genitore anticipatario

Per la Suprema Corte di Cassazione il genitore non collocatario è tenuto a rimborsare le spese
sostenute dalla ex per l'asilo privato delle figlie.
Il dato interessante è che il padre è tenuto al pagamento di tali somme extra anche se non
concordate preventivamente.
E' quanto stabilito dalla sesta sezione civile della Cassazione, con l'ordinanza n. 2127/2016

Il ricorrente contestava di non aver mai preso accordi con l'ex sulla frequentazione dell'asilo da
parte delle figlie.
In realtà le bambine già frequentavano l'asilo privato prima della separazione dei coniugi e pertanto
era implicito che vi fosse un accordo tra i genitori.

La Cassazione, rispetto alla tematica della preventiva concertazione tra i genitori per le spese
straordinarie da sostenere per i figli, è abbastanza costante: difatti per la partecipazione alle spese
straordinarie per l'educazione e l'istruzione dei figli "non esiste a carico del coniuge affidatario dei
figli un obbligo di concertazione preventiva con l'altro coniuge in ordine alla determinazione delle
spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli"
(cfr. Cass. n. 19607/2011). E anche "un obbligo di concertazione preventiva con l'altro genitore, in
ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie, che, se non adempiuto,
comporta la perdita del diritto al rimborso".

Nell'ipotesi di rifiuto il giudice dovrà soltanto "verificare la rispondenza delle spese all'interesse del
minore mediante la valutazione della commisurazione dell'entità della spesa rispetto all'utilità
derivante ai figli e della sostenibilità della spesa stessa, rapportata alle condizioni economiche dei
genitori".

Avv. Claudio Sansò
No all’aumento del mantenimento se i figli si iscrivono all’università fuori sede.

E’ questa la vicenda di due ragazzi pugliesi che decidevano di iscriversi ad un’università
marchigiana. La madre, a questo punto, chiedeva una modifica dell'assegno di mantenimento per le
intervenute esigenze dei figli.

Ebbene la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 439/16 nonostante il fatto che il trasferimento
dalla Puglia alle Marche abbia comportato un aumento degli oneri economici per la famiglia, ha
stabilito che il padre non deve versare un contributo maggiore al loro sostentamento.
Hanno ritenuto gli Eremellini che devono essere i due ragazzi, entrambi maggiorenni, ad abbattere
coi propri redditi, anche saltuari, i costi relativi alla permanenza nella sede universitaria. Questo, in
sintesi, è la motivazione alla base di questa decisione, che in parte, contrasta l’orientamento
consolidata che vede un aumento del mantenimento per i figli con l’avanzare della loro età per le
maggiori esigenze loro.

Anche se in tal caso è risultato decisivo per la Corte l’esistenza di una disponibilità economica,
seppur minima, dei due figli.

E’ indiscutibile il fatto che «l’incremento delle spese derivanti dal trasferimento di entrambi i figli
nella sede universitaria» sia compensato dalla «pur saltuaria capacità reddituale» della ragazza e del
ragazzo. Entrambi hanno dimostrato di potere «incrementare le loro disponibilità finanziarie», così
da «non gravare stabilmente sui genitori».

Tutto ciò, ossia le capacità dimostrate dai due figli, rende meno gravoso il «sostegno economico»
familiare per i loro «studi universitari». E, di conseguenza, è logica la scelta di non rendere più
pesante il «contributo» offerto dal padre.

Avv. Claudio Sansò
No all’aumento del mantenimento se i figli si iscrivono all’università fuori sede.

E’ questa la vicenda di due ragazzi pugliesi che decidevano di iscriversi ad un’università
marchigiana. La madre, a questo punto, chiedeva una modifica dell'assegno di mantenimento per le
intervenute esigenze dei figli.

Ebbene la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 439/16 nonostante il fatto che il trasferimento
dalla Puglia alle Marche abbia comportato un aumento degli oneri economici per la famiglia, ha
stabilito che il padre non deve versare un contributo maggiore al loro sostentamento.
Hanno ritenuto gli Eremellini che devono essere i due ragazzi, entrambi maggiorenni, ad abbattere
coi propri redditi, anche saltuari, i costi relativi alla permanenza nella sede universitaria. Questo, in
sintesi, è la motivazione alla base di questa decisione, che in parte, contrasta l’orientamento
consolidata che vede un aumento del mantenimento per i figli con l’avanzare della loro età per le
maggiori esigenze loro.

Anche se in tal caso è risultato decisivo per la Corte l’esistenza di una disponibilità economica,
seppur minima, dei due figli.

E’ indiscutibile il fatto che «l’incremento delle spese derivanti dal trasferimento di entrambi i figli
nella sede universitaria» sia compensato dalla «pur saltuaria capacità reddituale» della ragazza e del
ragazzo. Entrambi hanno dimostrato di potere «incrementare le loro disponibilità finanziarie», così
da «non gravare stabilmente sui genitori».

Tutto ciò, ossia le capacità dimostrate dai due figli, rende meno gravoso il «sostegno economico»
familiare per i loro «studi universitari». E, di conseguenza, è logica la scelta di non rendere più
pesante il «contributo» offerto dal padre.

Avv. Claudio Sansò
L'ACCORDO DI SEPARAZIONE PUO ESSERE REVOCATO PER DOLO

La Cassazione, con sentenza n. 8096 depositata in data 21/04/2015, ha stabilito che, in caso di
occultamento dei redditi da parte di uno dei coniugi, l'accordo di separazione è soggetto a
revocazione per dolo ex art. 395, n. 1 c.p.c. Il caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte,
tratta di una coppia di coniugi che raggiungono un accordo in sede di separazione, omologato dal
Tribunale. Successivamente la moglie, accortasi di essere stata ingannata dal marito relativamente
alla reale condizione economica di questi, propone appello e impugna la decisione, chiedendone la
revocazione. La Corte di Appello accoglie il ricorso e pronuncia la revocazione della sentenza
impugnata. Il marito propone ricorso in Cassazione. La Cassazione, preliminarmente precisa che,
nella separazione consensuale e nel divorzio congiunto, si stipula un accordo che, frequentemente,
per i profili patrimoniali, si configura come un vero e proprio contratto. Di conseguenza, se tale
accordo è nullo, tale nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, anche da chi ha
dato causa a tale nullità. Nel caso di specie, invece, ritiene la Corte, sussistonoi presupposti della
revocazione ex art. 395 n. 1 c.p.c. che si verifica quando viene posta in essere intenzionalmente
un'attività fraudolenta consistente in artifizi e raggiri, diretti ed idonei a paralizzare o sviare la
difesa avversaria e a impedire al giudice l'accertamento della verità, facendo apparire una
situazione diversa da quella reale e, così, pregiudicando l'esito del procedimento. Il marito, infatti,
ingannando la consorte con l'occultamento della sua reale situazione reddituale, ha ottenuto
nell'accordo di separazione benefici che, diversamente,non avrebbe ottenuto. La Suprema Corte,
pertanto, rigetta il ricorso del marito.

Avv. Marianna Grimaldi
Tribunale di Milano: il coniuge collocatario più abbiente deve versare un assegno all’altro
genitore.

Milano ha stabilito che il coniuge collocatario, qualora molto più abbiente dell'altro genitore, dovrà
versare un mantenimento in favore di quest'ultimo per il tempo che questi trascorre con il figlio.
Tale provvedimento è motivato dalla evidente condizione economica di svantaggio in cui versa il
coniuge non collocatario.
In tal modo viene tutelato il minore, al quale sono garantite le sue esigenze essenziali, anche quando
sta con il genitore non prevalente, in relazione al tenore di vita goduto, e il genitore non collocatario
che non vedrà allontanarsi il figlio da lui.
Altrimenti, una situazione troppo sperequata tra i coniugi andrebbe andrebbe a ledere il principio
della bigenitorialità.

Avv. Claudio Sansò
La casa all’ex convivente con i figli anche se la coppia non è sposata

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17971 dell'11 settembre 2015 ha chiarito che la casa
abitata dai figli minorenni della coppia di fatto deve essere assegnata al genitore collocatario.
La Cassazione ha, pertanto, sancito che anche nelle convivenze more uxorio, allorquando la coppia
abbia figli minori, la casa familiare è assegnata al genitore collocatario dei minori, anche se non è
proprietario dell'immobile.

Precisano gli Ermellini che il convivente assegnatario «in virtù dell'affectio che costituisce il
rapporto costituzionalmente protetto della relazione di convivenza è comunque detentore qualificato
dell'immobile ed esercita un diritto che può essere paragonato a quello del comodatario, anche
quando proprietario esclusivo è l'altro convivente».

Avv. Claudio Sansò
Sarà un terzo a decidere per il figlio

Il Tribunale di Reggio Emilia con una sentenza innovativa ha previsto che un terzo debba decidere
in luogo dei genitori le cure necessarie per fronteggiare alla patologia del loro figlio.
Questa è senza dubbio una provvedimento di portata innovativa che non ha precedenti in Italia.
La coppia, altamente conflittuale, aveva dimostrato di non trovare un accordo rispetto alle cure
necessarie per il figlio, affetto da autismo.

Dopo un'attenta analisi il Tribunale ha deciso di mantenere comunque l'affido condiviso, ma con il
sostegno di un neuropsichiatria infantile e della responsabile del centro autismo, che
congiuntamente sceglieranno le cure necessarie per salvaguardare la salute del minore.

Questa sentenza, rivolta ad una delle tematiche più dibattute degli ultimi tempi, ci pone numerosi
interrogativi, che vanno dal comprendere quale sia davvero il trattamento per una patologia di
ancora non chiarificata eziopatogenesi, alla responsabilità genitoriale in fatto di salute, laddove sia
qualcuno a scegliere al posto di un altro, piuttosto che educare e formare i genitori a scelte
consapevoli e condivise.

Avv. Claudio Sansò
Anche se manca l'accordo le spese straordinarie vanno rimborsate

E' quanto sancito con una sentenza recentissima dai giudici della Cassazione (n. 16175 depositata il
30 luglio 2015) ovvero che un genitore è tenuto al rimborso delle spese straordinarie anticipate
dall'altro genitore e sostenute in favore dei figli.
Con tale sentenza gli ermellini sono entrati in questa annosa questione, stabilendo che le spese
straordinarie, intese come importi pagati per motivi urgenti ed indifferibili, non devono essere
preventivamente concordate tra i due ex coniugi, allorquando si tratti di una decisione "di maggior
interesse" per il figlio, che fa scaturire a carico del genitore non collocatario, un obbligo di
rimborso, qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.
Non è dunque l'accordo preventivo dei genitori a risultare vincolante, ma l'effettiva rispondenza
delle spese rispetto all'interesse del minore, nonché che le stesse siano sostenibili in base alle
condizioni economiche dei genitori.

Avv. Claudio Sansò
Non sempre i nonni hanno diritto di frequentare i nipoti, figli di coniugi separati

La Suprema Corte (sez. I Civile, sentenza n. 8100/2015) ha sancito che la possibilità dei nonni di
stare con i nipoti è una facoltà che va contemperata sempre con il supremo interesse dei minori a
non subire alcun pregiudizio.

Nel caso di specie il Tribunale per i minorenni aveva revocato le disposizioni di un precedente
decreto con il quale prevedeva un graduale avvicinamento tra il nipote ed i nonni (confermato in
appello) in quanto veniva riscontrato un categorico rifiuto del nipote al ripristino del rapporto con i
nonni, motivandolo con il fatto che non voleva avere conflitti con i genitori, vista la forte acredine
tra i suoi genitori ed i nonni.

Il giudice deve tenere conto dell’interesse prevalente del minore evitando che egli possa trovarsi al
centro di un conflitto familiare con pregiudizio del suo diritto ad una crescita serena ed equilibrata.
La Cassazione ritiene pertanto che il provvedimento impugnato persegua la finalità di tutelare il
minore evitando un ambiente familiare conflittuale che determini una condizione ansiogena ben
lontana dalle sue esigenze di serenità nella crescita.

Avv. Claudio Sansò 
Non vi è stalking se vi è un solo episodio di molestie e minacce

Con la sentenza 20.11.2014 n. 48391, la Cassazione penale ha ribadito che non si configurano gli
elementi oggettivi del reato di stalking se vi è un singolo episodio di molestie e minacce ai danni
dell’ex.
La reiterazione delle condotte di minaccia o di molestia rappresentano un elemento indispensabile
affinchè i fatti possano qualificarsi ai sensi dell'art. 612 bis cp. Pertanto la reiterazione della
condotta va intesa come una ripetizione insistita e plurima, essendo sufficiente anche la ripetizione
della condotta una seconda volta.

Ovviamente non è sufficiente la sola condotta reiterata per la configurazione di siffatto reato ma
occorre che alla vittima venga cagionato un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero
fondato timore per la propria o altrui incolumità oppure che la stessa modifichi le proprie abitudini
di vita.

In altre parole: “Un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di
determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento
naturalistico del reato in parola, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico
protetto dalla norma in esame.”

Avv. Claudio Sansò 
Alla moglie che eredita dopo la separazione va ridotto l'assegno divorzile

E' giustificata la riduzione dell'assegno divorzile alla moglie che ha ereditato dopo la separazione.
E' quanto sancito dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 11797 del 27 maggio 2014, con la
quale ha accolto il ricorso di un divorziato che trovava eccessivo versare mille e 100 euro mensili
alla ex che, dopo la separazione, aveva ereditato alcuni appartamenti che aveva venduto
ricavandone 960mila euro.
Precisa la Suprema Corte che il riferimento al tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di
matrimonio - parametro per quantificare l’assegno - "deve desumersi dalle potenzialità economiche
dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità
patrimoniali e, nella determinazione dell’assegno divorzile, i beni acquisiti per successione
ereditaria dopo la separazione, ancorchè non incidenti sulla valutazione del tenore di vita
matrimoniale, perchè intervenuta dopo la cessazione della convivenza, possono tuttavia essere
presi in considerazione ai fini della valutazione della capacità economica del coniuge onerato".

Avv. Claudio Sansò 
Tribunale di Roma: il figlio di 39 anni deve provare di aver fatto di tutto per trovare lavoro

Il tribunale di Roma, con una sentenza di portata storica, ha revocato l'assegno di mantenimento in
favore di un figlio maggiorenne, di 39 anni, in quanto quest'ultimo non ha dimostrato di aver fatto
di tutto per trovare un lavoro.
In pratica i giudici hanno stabilito che oltre a una certa soglia di età, spetterà al figlio dimostrare di
aver posto in essere ogni attività per trovare un impiego.
No alla revoca dell’assegnazione della casa familiare non facilmente divisibile

Secondo la Suprema Corte – sentenza n. 23631 dell'11 novembre 2011 – qualora la casa familiare
sia costituita da un immobile la cui divisibilità non sia agevole, non è possibile disporre la revoca
dell'assegnazione della stessa in favore del coniuge proprietario ed affidatario dei figli al fine di
permettere all'altro di vivere nel piano inferiore.
In particolare gli Ermellini hanno stabilito che “non può disporsi l'assegnazione parziale della casa
coniugale a meno che l'unità immobiliare in contestazione sia del tutto autonoma e distinta da quella
destinata ad abitazione della famiglia ovvero questa ecceda per estensione le esigenze della famiglia
e sia agevolmente divisibile”.

Avv. Claudio Sansò
Il convivente non è un mero ospite.

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 18 febbraio 2014, ha accolto la domanda possessoria
presentata da una donna, in nome proprio e della figlia minore, che era stata estromessa dalla casa
familiare, di esclusiva proprietà del compagno.

In particolare, il giudice di merito ha preso in esame il caso di una donna che, al rientro dalle
vacanze estive insieme alla figlioletta, è stata cacciata via, in modo violento, dalla casa familiare e
privata delle chiavi per rientrarvi.

A seguito di ciò, la donna si è rivolta al Tribunale di Milano per ottenere la reintegrazione nel
possesso dell’immobile per se e per la figlia minore.

L’art. 1168 c.c. consente a chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso, di
chiedere, entro l’anno dal sofferto spoglio, contro l’autore di esso, la reintegrazione del possesso
medesimo. L’azione è concessa, altresì, a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l’abbia
per ragioni di servizio o di ospitalità.

Il Giudice, richiamando l’orientamento della Cassazione (sent. n. 7214/2013), ha affermato che la
convivenza more uxorio, dando vita ad un autentico consorzio familiare, determina un potere di
fatto sulla casa di abitazione, basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da mere
ragioni di ospitalità.
L’abitazione nella casa familiare, pertanto, assume i connotati tipici di una detenzione qualificata,
che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare.

Nel caso di specie, la ricorrente ha dimostrato la stabilità della convivenza nell’immobile oggetto
del giudizio – convivenza durata ben dieci anni – oltre ad aver dimostrato che, nel predetto
immobile, si è svolta l’ intera vita della famiglia di fatto.

Secondo il giudice di merito, pertanto, la ricorrente ha provato la propria qualità di detentore
qualificato dell’immobile.
Inoltre l’ordinanza ha evidenziato come il comportamento tenuto dal resistente ha integrato uno
spoglio violento per le modalità con cui è avvenuto, in quanto la privazione delle chiavi della porta
di abitazione del bene effettuata ai danni della ricorrente ha impedito alla stessa di esercitare la
detenzione del bene stesso.

Pertanto, proprio in quanto detentore qualificata dell’immobile, la resistente
non poteva essere allontanata improvvisamente dall'abitazione dal proprietario dell’immobile, ma
aveva il diritto di vedersi attribuito un congruo termine al fine di trovare un'altra sistemazione
abitativa, non essendo consentito comunque neanche al proprietario del bene il ricorso a forme di
autotutela, quale l'estromissione violenta del convivente dall'abitazione.

Le azioni a tutela del possesso, infatti, sono finalizzate proprio ad impedire che le persone, pur
potendo ricorrere al giudice per l'affermazione di un proprio diritto, ricorrano all'autotutela.
Il ricorso della donna è stato, quindi, accolto e il Tribunale ha ordinato la reintegrazione nella
detenzione dell'appartamento.

Avv. Marianna Grimaldi
Il sereno sviluppo psico-fisico del minore prevale sul diritto del padre al riconoscimento.

Il sereno sviluppo psico-fisico del minore prevale sul diritto del padre al riconoscimento.
E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 27729 dell’11 dicembre u.s.
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte tratta di un padre che, a seguito del mancato
consenso della madre, adiva il Tribunale per i Minorenni competente al fine di ottenere
giudizialmente il riconoscimento della minore.
Il T.M., acquisite le relazioni dei Servizi Sociali – dalle quale emerse un carattere violento ed
aggressivo del ricorrente, nonché un passato fatto di abuso di sostanze alcoliche e di una detenzione
per otto anni – rigettò la domanda con decreto impugnato dinanzi alla Corte di Appello Sezione
Minorenni .
Il Giudice di secondo grado, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto costituzionalmente garantito
al riconoscimento del proprio figlio naturale, “che può essere sacrificato solo in presenza di motivi 
gravi ed irreversibili, tali da far ritenere la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo
psicofisico del minore”, rigettò il reclamo.
La Corte d’Appello, in particolare, motivò la propria decisione sia per il vissuto dell’uomo, per i
precedenti dello stesso, sia per aver volontariamente omesso di continuare ad avvalersi del supporto
terapeutico messo a sua disposizione

Il padre ricorre in Cassazione.

La I Sezione della Corte di Cassazione rigetta il ricorso affermando il principio che il diritto
costituzionalmente garantito al riconoscimento del figlio naturale non è assoluto, ma deve essere
controbilanciato con il diritto del minore a non vedere compromesso il proprio sviluppo psicofisico.
Nel caso di specie, l’immaturità del padre biologico e la sua indole violenta ed aggressiva,
manifestatasi anche nei rapporti con i parenti materni della bimba, è sufficiente di per sé a dar conto
del convincimento maturato dal giudice del merito circa la rilevante probabilità di compromissione
dello sviluppo psicofisico della minore nel caso di riconoscimento della stessa da parte del padre.

Avv. Marianna Grimaldi
Sì al condiviso anche quando uno dei due genitori vive con il figlio all’estero

Il minore può essere affidato a entrambe i genitori anche quando uno dei due vive con il figlio
all’estero.
L’oggettiva lontananza non è una preclusione per l’istituto introdotto con la riforma del 2006. La
Suprema corte ha, pertanto, confermato la pronuncia del Tribunale di Bologna che affidava a
entrambi i genitori, uno residente in Italia e l’altra all’estero, il figlio minore.

Già nel 2010 la Cassazione si era pronunciata in tal senso: “alla regola dell'affidamento condiviso
dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore,
con la duplice conseguenza che l'eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta
da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in
negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell'altro genitore” chiarendo che
“l'oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei genitori non preclude la possibilità di un
affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, potendo detta distanza incidere soltanto
sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore (artt.
155, comma 2, e 155 quater, comma 2, c.c.)” (Cass. N. 24256/10).

Nella nuova pronuncia si legge in motivazione che «non sussistano motivi ostativi all’affidamento
condiviso del minore ad entrambi i genitori posto che la considerevole distanza tra le parti e
l’accesa conflittualità fra le stesse, come emergente dagli atti di causa, non rappresentano
circostanze sufficienti ed idonee a limitare le prerogative in ordine alla condivisione delle decisioni
di maggiore importanza relative alla salute, alla cura e all’istruzione».
Al padre dovrà essere garantito un contatto quotidiano con il figlio per il tramite di una webcam.

Avv. Claudio Sansò
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia se il coniuge offende ripetutamente la moglie

Le offese reiterate nei confronti del coniuge possono configurare il reato di maltrattamenti in
famiglia.
È chiara la lettura offerta dalla Sesta Sezione penale della Cassazione la quale ha stigmatizzato che
comportamenti abituali, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali, ingiuriose e
offensive determinano la condanna per il reato di cui all’art. 572, c.p.( sentenza 28 dicembre 2010,
n. 45547) .
Il delitto di "maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli" è previsto dall'art. 572 del codice penale -
articolo inserito nel titolo XI del codice ricomprendente i delitti contro la famiglia e quindi nel capo
IV in tema di delitti contro l'assistenza familiare- e prevede la condotta di chi "...maltratta una
persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua
autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per
l'esercizio di una professione o di un'arte..." con una sanzione che, nella ipotesi base del primo
comma, contempla la reclusione da uno a cinque anni.
La giurisprudenza dominante ha stabilito che tale fattispecie delittuosa consiste nella sottoposizione
dei familiari ad una serie di atti di vessazione continue tali da cagionare sofferenze, privazioni,
umiliazioni, costituituenti fonte di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita.
Una serie di atti lesivi dell'integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei
confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata
tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico
integrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima.
Quindi anche le ripetute offese possono integrare la fattispecie delittuosa in questione. Secondo il
giudice, infatti, “tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un
programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi,
da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione e in cui il dolo si configura come volontà
comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e penosa
l'esistenza della moglie”.

Avv. Claudio Sansò
ANCHE SE ENTRAMBI I GENITORI SMINUISCONO LA FIGURA DELL’ALTRO
DINANZI AI FIGLI, LA SEPARAZIONE VA ADDEBITATA AL CONIUGE VIOLENTO E
FEDIGRAFO

E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 23236/2013 depositata in
data 14 ottobre.
Il caso concreto si riferisce ad una separazione particolarmente conflittuale in cui i due coniugi, a
seguito della frattura matrimoniale, hanno avuto un atteggiamento volto a screditare reciprocamente
la figura dell’altro genitore agli occhi dei figli.
Tale atteggiamento, essendo reciproco, non può essere posto alla base di una pronuncia di addebito
nei confronti dell’uno o dell’altro.
Proprio sulla richiesta di addebito, però, si pronuncia la Cassazione, confermando le statuizioni
economiche.
La Suprema Corte, infatti, dopo aver sottolineato che “l’atteggiamento squalificante dell’altro
genitore agli occhi dei figli viene ascritto ad entrambi i coniugi”, ritiene comunque sussistenti i
presupposti per addebitare la separazione de quo al marito.
Alla base della decisione è posto sia un comportamento violento e aggressivo nei confronti della
coniuge e dei figli stessi, sia la comprovata relazione extraconiugale coltivata dall’uomo per dieci
anni prima della separazione.
Ebbene, secondo la riferita sentenza, l’intolleranza della prosecuzione della convivenza è stata
determinata proprio dalla relazione extraconiugale del marito e dal di lui comportamento violento e
aggressivo.
Come è noto, infatti, il presupposto per la dichiarazione di addebito consiste nel comportamento,
posto in essere da un coniuge in costanza di matrimonio, contrario ai doveri che derivano dal
matrimonio ( dovere di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione e contribuzione nell’
interesse della famiglia).
Nel caso di specie i comportamenti dell’uomo, posti in essere durante la convivenza matrimoniale,
sono stati valutati contrari ai doveri derivanti dal matrimonio e causa del venir meno dell’ affectio
coniugalis.

Avv. Marianna Grimaldi
Ancora una sentenza che ha ad oggetto la tanto discussa PAS ( Sindrome di alienazione
genitoriale).

Corte di Cassazione, sentenza I sez. civile n. 7041/2013, depositata in data 20 marzo 2013.

Prima di commentare il caso concreto sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, va data una
definizione di tale sindrome che potremmo definire come “l’effetto di una condotta genitoriale
pervicace e sistematica che ottenga il risultato di distaccare in perpetuo l’altro genitore 
dall’affetto del figlio (definizione tratta dalla sentenza del Tribuanle di Trieste del 13 maggio
2008).
Il comportamento alienante, arreca, pertanto, un enorme danno sia in capo al minore che si vede
privato di una delle due figure genitoriali, sia in capo al genitore alienato che è escluso dal proprio
ruolo.
La PAS, quando accertata, può definirsi una figura di abuso di potestà.
Ma veniamo ora al caso concreto.
La Corte di Appello - chiamata a decidere sull’affidamento di un minore affidato in primo grado
alla madre - a seguito delle risultanze emerse dalla consulenza tecnica, decide di modificare il
regime di affidamento, con conseguente affidamento del minore al padre.
Alla base della decisione dei giudici di secondo grado, l’assoluta stigmatizzazione del
comportamento della madre, la quale, secondo quanto emerso dalla consulenza tecnica, ha posto in
atto un atteggiamento “alienante” concretizzatosi nella “mancata identificazione della figura
paterna”, nel “rifiuto di rapporti con il padre”, nel “potere assoluto” della madre sul figlio.
La stessa, inoltre, invece di favorire la ricostruzione di un rapporto padre-figlio, poneva in essere
atteggiamenti ostruzionistici, ostacolando il rapporto stesso.
La Corte di Appello, pertanto, decideva di affidare il figlio al padre, inserendolo “in una struttura
residenziale educativa”.
La madre proponeva ricorso in Cassazione, affermando che i giudici si sono limitati a prendere atto
delle conclusioni della consulenza tecnica sull’accertamento diagnostico della sindrome di
alienazione genitoriale, senza, però, valutare la validità, sul piano scientifico di tale patologia di cui
ne criticava la fondatezza.
Gli Ermellini, ritengono fondate le rimostranze della madre, ritenendo che la valutazione dei giudici
dell’Appello è discutibile in quanto fondata sulla diagnosi formulata dal consulente tecnico e sulle
“pretese esigenze terapeutiche” senza tenere conto del fatto che ci troviamo dinanzi ad una teoria
non ancora consolidata sul piano scientifico e molto controversa.
Testualmente i giudici della Suprema Corte hanno sostenuto che “non può ritenersi che, soprattutto
in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico,
come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese,
non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare”.
La Suprema Corte, pertanto, ha posto nuovamente la questione al vaglio della Corte di Appello.

Avv. Marianna Grimaldi
Stato di adottabilità del minore: presupposti.

Il minore ha diritto a vivere ed essere educato ed accudito dai propri genitori biologici.
Tale priorità, però, non può essere considerata in astratto, ma valutata nel caso concreto, tenendo
presente l’attitudine della famiglia biologica ad assicurare al minore una crescita sana ed
equilibrata.
Tale principio è stato stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione (Sentenza n. 5013 del 28
febbraio 2013, Prima Sezione), alla cui attenzione è stato posta la questione riguardante un minore
dichiarato in stato di adottabilità sia dal Giudice di primo grado che dalla Corte di Appello.
Il Tribunale aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore dopo aver constatato la mancanza di
un contesto familiare idoneo ad una serena crescita psico-fisica del minore stesso.
Tale decisione veniva presa sia a causa delle gravi condotte della madre, sia a causa dell’incapacità
del padre di crescere il minore e di proteggerlo dai comportamenti materni.
Dalle consulenze svolte, infatti, era emerso che la madre soffriva di gravi disturbi psichici che, non
solo le impedivano di svolgere la propria funzione genitoriale, ma le compromettevano totalmente
la sua capacità di autocontrollo, soprattutto nei confronti di chiunque si occupasse del figlio.
Gli zii materni prima, gli zii paterni poi e, infine, anche i nonni paterni, non erano riusciti a
garantire al minore la stabilità e la serenità necessaria alla sua crescita, né a proteggere il minore
dalla madre.
Il padre del minore proponeva ricorso in Cassazione sostenendo, come primo motivo, la violazione
degli artt. 8, 10, 12, 15, 16 e 17 della Legge n. 184/1983 (Legge sulle adozioni) e l’inesistenza dello
stato di abbandono del minore (presupposto necessario per la dichiarazione di adottabilità), dovuta
alla sua presenza costante e alla presenza degli altri familiari.
Come secondo motivo, sosteneva la sua idoneità a svolgere il ruolo di padre. Idoneità evidenziata
dalle relazioni dei S.S. e dalle risultanze della CTU.
Il tutore del minore, però, chiedeva il rigetto del ricorso.
La Suprema Corte, dopo aver effettuato gli opportuni accertamenti, respingeva il ricorso del padre e
confermava lo stato di adottabilità del minore, avendo ritenuto che, né la madre (a causa dei suoi
disturbi psichici), né il padre e gli altri familiari (per non essere riusciti, in passato, a tutelare il
minore dai comportamenti pregiudizievoli messi in atto dalla madre), erano in grado di garantire al
minore una serena crescita psico-fisica.
E’ vero, infatti, che il prioritario interesse del minore è quello di vivere nella propria famiglia
biologica (art. 1 Legge 184/1983), ma è altrettanto vero che, se la famiglia non è in grado di fornire
al minore tutte le cure necessarie a soddisfare i suoi bisogni, si configura lo stato di abbandono e la
conseguente dichiarazione dello stato di adottabilità.

Avv. Marianna Grimaldi
LA SOMMA VERSATA A TITOLO DI MANTENIMENTO E' RIPETIBILE SE IL
MINORE E' FIGLIO DELLA SOLA MOGLIE.

Il principio generale secondo cui le somme versate, a titolo di mantenimento del figlio, sono
irripetibili nonostante la revoca dello stesso assegno di mantenimento, non si applica nel caso in cui
viene accertato che il beneficiario non è figlio di entrambi i coniugi.
E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte con sentenza n. 21675/2012 depositata in data 4 dicembre
u.s.
Il caso di specie tratta di un uomo che ha chiesto la riforma della sentenza di primo grado che ha
respinto la domanda di restituzione delle somme versate a titolo di mantenimento del figlio minore.
Il minore in questione, però, era risultato essere figlio della sola moglie.
La Corte di Appello ha confermato la decisione di primo grado, sul presupposto che il marito aveva
eccepito tardivamente (nella comparsa conclusionale) il dolo e la malafede della coniuge in ordine
alla paternità del minore.
A tale pronuncia il marito ha proposto ricorso per cassazione .
La Suprema Corte, tra le altre, dopo aver confermato l’irripetibilità delle somme versate nel caso di
revoca dell’assegno di mantenimento, ha evidenziato che, nel caso de quo, detto principio non è
stato applicato correttamente in quanto presuppone lo status di figlio di entrambe le parti del
giudizio di separazione.
Ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza impugnata.

Avv. Marianna Grimaldi
L’aspra conflittualità tra i coniugi può determinare l’affido del minore ai servizi sociali

La forte conflittualità tra i coniugi può essere fonte di gravi ripercussioni psicologiche sui figli. In
tali casi la Cassazione (sent. N. 12308/2010) confermando quanto stabilito nel merito, ha stabilito
come questo aspetto possa rappresentare un valido motivo per affidare i figli ai servizi sociali. In tal
caso, anche se l’affidamento condiviso rappresenta la regola, il Tribunale può provvedere per
l’affidamento a terzi in virtù del preminente interesse del minore a crescere in modo sereno ed
equilibrato.
La necessità di consentire ad una minorenne di "elaborare criticamente la sua condizione" e di
effettuare autonome scelte che risultavano invece precluse dall'influenza dei genitori, rappresenta,
per la Suprema Corte, un punto fondamentale per lo sviluppo del minore. Nel caso concreto la
minore risultava divisa dal desiderio di compiacere entrambi i genitori. L'affidamento ai servizi
sociali, in questa ottica, deve rispondere all'esigenza di consentire "una corretta formazione della
sua personalità".

Avv. Claudio Sansò
Cassazione: stato di adottabilità dei figli di genitori che, pur vivendo di stenti, continuano a
fare figli

Ecco una sentenza che susciterà diverse polemiche: è legittima la dichiarazione di adottabilità dei
figli nati da una coppia che, pur vivendo di stenti, continua a procreare. Ciò significa che i figli che
vivono in condizioni economiche disagiate a causa dei loro genitori e che continuano
irresponsabilmente a fare figli, possono essere adottati. Formalmente la pronucia sembrerebbe
contrastare quanto previsto dalla Convenzione dell'Aja del 93 nonchè dall'art 1 della legge 184/83
che sancisce come " Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria
famiglia. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potesta genitoriale non
possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a
favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto".
In sostanza la Suprema Corte è giunta a tale conclusione poichè ha ritentuo la coppia
irresponsabile, inaffidabile e non in grado di curare i minori in quanto, nonstante la famiglia
versasse in gravi difficoltà economiche e vivesse di stenti, continuava a procreare figli per avere un
figlio maschio. La sentenza n. 24589 del 21 novembre 2009 ha, pertanto, confermato lo stato di
adottabilità delle quattro figlie minori.

Avv. Claudio Sansò
Il padre che parla male della madre perda l’affidamento condiviso (diagnosi di PAS)

Il genitore che parla male dell'altro, dinanzi ai figli, può subire la modifica dell'affidamento
condiviso. E' quanto sancito dalla Corte di cassazione (Sezione I civile - Sentenza 8 marzo 2013 n.
5847).
Un padre di Catania, dopo aver avuto l’affidamento dei bambini, l’assegnazione della casa
coniugale e il pagamento dell’assegno da parte della ex (la quale aveva anche subito un
provvedimento che ne limitava gli incontri con i figli), ha perso su tutti fronti, ed ora dovrà pagare il
mantenimento, alla ex, a seguito della decisione della Corte di appello (confermata in Cassazione).
Sulla scorta di una relazione medica del servizio di psichiatria della Asl di Catania, che ha
diagnosticato “una sindrome da alienazione parentale dei figli ed evidenziava il danno irreparabile
da essi subito per la privazione del rapporto con la madre” , i giudici di secondo grado hanno
ribaltato la sentenza del Tribunale. Dalla relazione è inoltre emerso che il padre poneva in essere “la
reiterata condotta ostruzionistica al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la
madre” e che, tutto ciò, ha determinato“un giudizio negativo circa le attitudini genitoriali”.

Avv. Claudio Sansò
Il figlio maggiorenne non autosufficiente può intervenire nella causa di separazione

Il figlio maggiorenne può intervenire autonomamente nel giudizio di separazione e di divorzio dei
genitori. Lo ha sancito la Corte di cassazione con la sentenza n 4296/2012, (Sezione I civile - del 19
marzo 2012), con la quale ha riconosciuto ad un ragazzo di venti anni la legittimazione ad
intervenire nella causa tra madre e il padre al fine di richiedere il suo mantenimento.
La Corte ha precisato che vi sono due posizioni tutelabili nel caso specifico e cioè quella del
genitore convivente diretta ad ottenere l’assegno per adempiere ai propri compiti senza dover
anticipare il denaro di tasca propria; e quella del figlio avente diritto al mantenimento, “ed anzi
legittimato in via prioritaria ad ottenere il versamento diretto del contributo”, così come previsto
all'articolo 155 quinquies c.c.
La madre impedisce al padre di incontrare il figlio: condannata per sottrazione di minore
La Corte di Cassazione condanna, in via definitiva, una donna che ha impedito all'ex coniuge di
vedere il figlio minore.

La madre è stata riconosciuta colpevole di sottrazione di incapace (minore).

La sentenza è la n. 5902 del 6 febbraio 2013 con la quale i giudici di legittimità 
hanno rigettato ilricorso della donna contro la decisione del Tribunale che dichiarava il non doversi precedere nei
confronti dell’ex marito per il reato di calunnia, per avere lo stesso denunciato la ricorrente per il
reato di sottrazione di minore e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.
Dal punto di vista fattuale, la donna si era trasferita in un’altra città e con il bambino senza
l'autorizzazione del padre e, quando l’uomo si è recato da lei per vedere il figlio (nel giorno
prestabilito) la stessa si era rifiutata di farli incontrare non facendolo entrare in casa.
Tale comportamento ha indotto gli Ermellini a pronunciarsi in tal modo:

Il genitore, non potendo quindi esercitare il suo diritto e vedendosi menomato della sua potestà
genitoriale, aveva inveito contro la donna, e quindi i due si erano reciprocamente denunciati.
La condotta della madre, avvisano i giudici, ha integrato il rifiuto di consegna al genitore avente
diritto in quel momento, e pertanto di accuse del padre non sono calunniose: un comportamento di
tal fatta, a maggior ragione che la donna aveva portato il figlio in un’altra città senza il consenso
del padre, ben rappresenta una ipotesi di sottrazione di minore e di mancata esecuzione dolosa di
un provvedimento del giudice. Infatti, continuano i giudici, il coniuge affidatario ha l’obbligo di 
attivarsi correttamente ed efficacemente per consentire l’esercizio dei diritti riconosciuti all’altro
genitore. E in mancanza di un atteggiamento di cooperazione si configura il reato.

Avv. Claudio Sansò
Addebitabile la separazione al marito che obbligava la moglie a consegnargli lo stipendio

Rischia l’addebito della separazione il marito padrone che si fa consegnare dalla moglie lo stipendio
per gestire da solo tutto il menage familiare.
E quanto sancito dagli Ermellini, con la sentenza n. 26379 del 7 dicembre 2011, che hanno
respinto il ricorso del coniuge che in primo grado si era visto addebitare la separazione perché
aveva vessato per anni la moglie, togliendole, fra l’altro, lo stipendio.
La prima sezione civile di Piazza Cavour ha sottolineato che “ove i fatti accertati a carico di un
coniuge costituiscano violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili – traducendosi
nell'aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l'incolumità e l'integrità fisica,
morale e sociale dell'altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di
rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner — non solo integrano
violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la
pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della
convivenza, ma anche la dichiarazione, della sua addebitabilità all'autore,di esse, ma inoltre, sono
insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest'ultimo e si
sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un
mezzo per escludere l'addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere”.


Avv. Claudio Sansò
Troppo protettiva con il figlio: madre condannata per maltrattamenti

Clamorosa sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato una signora di Ferrara che
circondava di troppe cure ed attenzioni il proprio bambino.
Questa eccessiva protezione, esercitata dalla madre e dal nonno nei confronti del minore, ha
determinato un grave rallentamento dello sviluppo psicofisico del bambino, poiché tenuto lontano
dal resto del mondo.
Non solo il bambino è stato allontanato dal contesto scolastico (asilo), ma anche dal padre separato.
Proprio da una denuncia di quest’ultimo è nato il procedimento penale a carico della madre e del
nonno.
Entrambi sono stati condannati ad una pena detentiva (coperta dal condono) di un anno e 4 mesi.
La Corte si è espressa stabilendo che "l'aver chiuso il figlio nelle mura domestiche dal 1997 al
2004” per “iperprotezione e ipercura” costituiscono reato di maltrattamento in famiglia al pari di
altre forme di vessazione dei minori.
Il bambino è stato trattato come se fosse poco più di un neonato, a tal punto da non imparare ancora
a camminare bene. Addirittura, il minore ha potuto conoscere i propri coetanei solo all’età di 6 anni,
alle elementari.
La patologica esasperazione con cui veniva trattato il bambino aveva determinato la cancellazione
della figura paterna, poiché il “regime” imposto dalla madre e dal nonno impedivano gli incontri del
padre con il bimbo e, per giunta, avevano fatto in modo che il cognome paterno fosse “soppresso”
nella mente del minore. Difatti a scuola il figlio era riconosciuto esclusivamente con il cognome
materno.

Avv. Claudio Sansò
Riconosciuta la legittimazione ad agire iure proprio per il risarcimento del danno al minore
nato con una malformazione.

Con pronuncia n. 16754/12 depositata in data 2 ottobre u.s., i giudici di legittimità hanno
nuovamente affrontato lo spinoso dibattito in ordine alla legittimazione o meno ad agire iure
proprio per il minore nato malformato, per il ristoro del danno patito a seguito della malformazione.
Questa volta, però, richiamando la sentenza Englaro e quella della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo del 28 agosto 2012, la Suprema Corte ha enunciato un principio completamente nuovo
rispetto alle precedenti pronunce nn. 14488 del 2004 e 10741 del 2009 che ha citato e confutato.
Infatti, mentre la precedente sentenza n. 14488/2004 aveva escluso tale legittimazione, limitandola
ai genitori del bambino e affermando che al concepito poteva essere riconosciuto solo il diritto a
nascere e non altro, con la sentenza in esame, si è giunti ad una diversa conclusione.

IL CASO

Una donna aveva espresso al medico la propria volontà di non voler portare a termine la gravidanza
nel caso in cui, a seguito di accertamenti sul feto, fosse seguita una diagnosi di malformazione.
Ebbene, il ginecologo faceva eseguire alla donna solo il tri-test e ometteva di spiegare alla futura
madre la possibilità di effettuare esami più invasivi che avrebbero, di certo, aumentato la
percentuale del grado di certezza della diagnosi.
Al termine della gravidanza, nasceva una bambina affetta dalla sindrome di Down.
I genitori, le sorella e la stessa bimba adivano il Tribunale chiedendo la condanna del ginecologo e
dell’USSL al risarcimento del danno patito per l’omessa diagnosi di malformazione.
Il Tribunale, preliminarmente, dichiarava il difetto di legittimazione attiva della minore disabile. Lo
stesso fece la Corte di Appello.
La sentenza della predetta Corte veniva impugnata con ricorso per cassazione e la Suprema Corte,
al termine di un lunghissimo ragionamento, sanciva il principio secondo cui la domanda risarcitoria
avanzata personalmente dal bambino malformato trova il suo fondamento negli artt. 2,3,29 e 32 
Cost., affermando che “Il vulnus lamentato dal medesimo non è la malformazione in sé, ma lo stato
funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata; l’interesse giuridicamente
protetto è quello di consentire al minore di alleviare, sul piano risarctorio, la propria condizione di
vita destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici del Costituente”.
Pertanto, la Corte sembra voler affermare che il risarcimento dei danni che il minore diversamente
abile può chiedere al medico che non abbia messo in condizione la madre di decidere in modo
consapevole di interrompere la gravidanza, lo aiuterà ad alleviare una difficile condizione di vita in
cui lo stesso minore si troverà.

Avv. Marianna Grimaldi
Assegno divorzile dimezzato se le condizioni economiche del coniuge obbligato sono
peggiorate.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 17301/2012 depositata in data 10 ottobre u.s, ha affrontato
il tema dell’ assegno divorzile, enunciando i principi da rispettare, sia per accertare l’esistenza dello
stesso, sia per determinarne l’ ammontare.
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte si riferisce ad una coppia di coniugi che si rivolge
al Tribunale per sentirsi dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Il Tribunale, tra le altre disposizioni, determina in € 900,00 mensili l’assegno divorzile dovuto dal
marito in favore della coniuge.
Tale importo viene, però, quasi dimezzato dalla Corte di Appello sulla base di un deterioramento
delle condizioni economiche del coniuge obbligato.
La moglie, pertanto, ricorre in Cassazione.
I Giudici di legittimità, con l’ ordinanza su menzionata, ribadiscono il principio secondo cui
l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi: la prima è tesa ad accertare
l’esistenza del diritto in astratto, considerando l’inadeguatezza dei mezzi di sussistenza del coniuge
istante e la impossibilità oggettiva a procurarseli; il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Nella seconda fase, invece, il giudice deve determinare in concreto l’ammontare dell’assegno. Per
fare ciò deve rispettare determinati parametri quali il contributo personale ed economico dato da
ciascun coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio; le attuali condizioni
economiche delle parti; la durata del matrimonio.
Ebbene, nel caso di specie, la Suprema Corte valutate tutte le condizioni di cui sopra, ha confermato
la riduzione dell’assegno divorzile sulla base di una modifica in peius delle condizioni patrimoniali
e reddituali del marito.

Avv. Marianna Grimaldi
Assegno divorzile dimezzato se le condizioni economiche del coniuge obbligato sono
peggiorate.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 17301/2012 depositata in data 10 ottobre u.s, ha affrontato
il tema dell’ assegno divorzile, enunciando i principi da rispettare, sia per accertare l’esistenza dello
stesso, sia per determinarne l’ ammontare.
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte si riferisce ad una coppia di coniugi che si rivolge
al Tribunale per sentirsi dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Il Tribunale, tra le altre disposizioni, determina in € 900,00 mensili l’assegno divorzile dovuto dal
marito in favore della coniuge.
Tale importo viene, però, quasi dimezzato dalla Corte di Appello sulla base di un deterioramento
delle condizioni economiche del coniuge obbligato.
La moglie, pertanto, ricorre in Cassazione.
I Giudici di legittimità, con l’ ordinanza su menzionata, ribadiscono il principio secondo cui
l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi: la prima è tesa ad accertare
l’esistenza del diritto in astratto, considerando l’inadeguatezza dei mezzi di sussistenza del coniuge
istante e la impossibilità oggettiva a procurarseli; il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Nella seconda fase, invece, il giudice deve determinare in concreto l’ammontare dell’assegno. Per
fare ciò deve rispettare determinati parametri quali il contributo personale ed economico dato da
ciascun coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio; le attuali condizioni
economiche delle parti; la durata del matrimonio.
Ebbene, nel caso di specie, la Suprema Corte valutate tutte le condizioni di cui sopra, ha confermato
la riduzione dell’assegno divorzile sulla base di una modifica in peius delle condizioni patrimoniali
e reddituali del marito.

Avv. Marianna Grimaldi
Tribunale di Nuoro: il coniuge che lavora ha diritto all’assegno divorzile. Presupposti

Il tribunale di Nuoro, con la sentenza n. 424/2018, sulla scia della recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 18287/2018, ha riconosciuto in favore della ex moglie, ultracinquantenne, un assegno divorzile di 800 euro mensili.
Tale pronunciamento trova la sua ragione sul presupposto che la donna, lavoratrice, si è dedicata alla famiglia per 30 anni, durante i quali ha cresciuto tre figli. Altresì hanno ritenuto i giudici nuoresi che la signora è impossibilitata a trovare un impiego più retribuito di quello attuale e per il fatto che aveva perso la casa (di proprietà dell’ex consorte), per cui ha diritto a un aiuto per pagare un canone di locazione.
In altre parole il Tribunale di Nuoro ha tenuto conto della funzione perequativa, compensativa e assistenziale dell’assegno divorzile e declamati dalle S.U; il tutto tenendo conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, al reddito di entrambi, dell’età della richiedente e della durata del matrimonio.

SENTENZE

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